MEDICI PER LA PACE – I PROTAGONISTI: Giancarlo, il tesoriere dell'associazione
I protagonisti di Medici per la Pace si raccontano per noi: oggi è il turno di Giancarlo Brunello, tesoriere dell'associazione.
Dopo una vita professionale di commercialista, trascorsa tra bilanci e dichiarazioni dei redditi, in seguito alla prematura scomparsa della mia prima moglie avvenuta alla fine del 2001 ho pensato di dedicarmi ad un’attività di volontariato che potesse aiutarmi a superare quel trauma. Quindi tutto è nato da un bisogno personale, chiamiamolo pure egoistico. Il resto è arrivato grazie all’amicizia col dottor Fabrizio, tuttora Presidente dell’associazione Medici per la Pace.
Vista la mia professione è stato naturale dedicarmi a tutti gli adempimenti burocratici che deve sostenere un’associazione e non sono pochi. È come gestire una piccola azienda: si devono fare rendicontazioni sui singoli progetti, tenere contabilità , compilare bilanci, e quant’altro. Tra l’altro col tempo la burocrazia non si è affatto snellita, tutt’altro!
Ma registri, fatture e tante scartoffie non mi hanno tenuto soltanto alla scrivania, tanto che nel 2005 avevo le valigie pronte per la mia prima missione: la Birmania. Non avendo la nostra associazione proprio personale espatriato per la realizzazione dei progetti, ci appoggiamo ad altre realtà , soprattutto locali, delle quali sosteniamo le spese in base ai finanziamenti reperiti. Ciò comporta la necessità di effettuare missioni sul posto per verificare se quello che abbiamo progettato trovi realizzazione sul campo. Come in tutti gli ambiti, laici o religiosi che siano, anche nel volontariato ci possono essere degli approfittatori, e quindi bisogna agire con cautela. Le nostre missioni servono per controllare, ma anche per documentare, con reportage fotografici, ai nostri donatori (fondazioni, enti pubblici e privati, semplici cittadini) come abbiamo impiegato le loro offerte.
 La Birmania fu il primo viaggio, quello che non si scorda mai. Ma anche il primo impatto con quanto sia difficile ed a volte frustrante voler fare del bene. Non basta, come si crede, avere un progetto e dei soldi per realizzarlo. Non si può entrare in un paese straniero, per quanto povero che sia, e fare quello che si vuole. Servono autorizzazioni, agganci con realtà locali, e talvolta, come fu in Birmania, sembra di avere davanti un muro di gomma. Muro che fortunatamente superammo coinvolgendo nel nostro progetto di prevenzione della malaria un’altra associazione italiana che aveva già un’autorizzazione dello stato birmano.
 Essere parte di un’organizzazione che ha l’obiettivo di migliorare la vita di esseri umani come noi, ma che non hanno avuto la nostra fortuna, ha suscitato in me sensazioni che non conoscevo. Ricevi un’enorme carica vitale, ma nello stesso tempo ti metti in discussione. Quando ti immergi nel mare di bisogni che ci sono in questi Paesi viene spontaneo chiederti: ma che ci faccio qui? Per quanto io possa impegnarmi, non potrò mai salvare tutti i bambini di strada che vagano accattonando nei sottofondi di certe megalopoli, i moribondi sdraiati sui marciapiedi, le donne violate e ridotte in schiavitù. Se ci si ferma a questa constatazione, allora è meglio finirla lì e tornare alle proprie occupazioni quotidiane. Il modo per uscire da questa impasse è quello di pensare che, anche una sola vita salvata, vale tutto lo sforzo che facciamo noi volontari e chi ci sostiene. Ed infine si deve considerare che non siamo soli. Il nostro agire si somma a quello di tante altre associazioni diffuse in tutto il mondo, e le vite salvate, le persone recuperate a una vita decente non sono così poche.